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A quanto pare l’arte sembra essere diventata la figlia del benessere, una creatura che vive il suo splendore nella ricchezza, un fiore del lusso; vale a dire un prospero mercato dell’arte è allo stesso tempo indice e conseguenza di uno stato abbastanza generalizzato di buona salute dell’intera economia. D’altronde il discorso è valido da un punto di vista strettamente economico per tutti i mercati qualsiasi sia il bene o servizio che abbiano ad oggetto. Ma il punto di domanda è questo: sono anche queste le condizioni ideali del suo nascere? Perché non si può prescindere dal considerare le particolari caratteristiche del mercato in questione, laddove si consideri che non è possibile paragonare un artista grande o piccolo che sia ad un qualsiasi produttore di beni ed i dipinti, le sculture, et similia ad un qualsiasi bene o servizio. Il fatto che anche nel passato allorquando sono andate a crearsi forti concentrazioni di grandi artisti e di capolavori, in un territorio in qualche misura spirituale, pur nella sua concretezza, come quello della creazione artistica sia stata la domanda a produrre l’offerta come per altri settori produttivi sembrerebbe essere la riprova che distinzioni tra mercato dell’arte ed altri mercati non se ne possano fare. Dobbiamo quindi con orrore constatare che sia il desiderio di denaro (o del successo che fa lo stesso) a fecondare l’artista ad esaltarne il talento? E che di conseguenza la nostra pulsione all’acquisto di un dipinto sia determinata solo da considerazioni economiche? Mi rifiuto di pensare. Possibile che quella capacità che attribuiamo a dipinti et similia di stimolare le nostre condizioni spirituali o intellettuali e i nostri intimi stati d’animo, possibile che la diffusa attitudine alla contemplazione quasi religiosa quando non mistica dell’opera del genio artistico (intesa come equivalente umano della creatività divina) non siano altro che l’esagerata ammirazione di un prodotto essenzialmente economico, di un manufatto artigianale ad uso del mercato? In tal caso, è la mancanza di quali altre risorse a trasferire all’arte un ruolo così alto (e così ben remunerato) nelle nostre esistenze? È significativo che da sempre ricorriamo a termini economici per esprimere la gratificazione che l’arte riesce a darci; è lo stesso artista spesso a lamentarsi come mi è accaduto di assistere in una Galleria d’Arte a Portici, della scarsa quotazione attribuita al proprio dipinto. Non accadrebbe mai ciò per una poesia o una melodia. Nella nostra epoca economicocentrica l’assimilazione dell’arte ad altri beni economici di significato alto può facilmente degenerare. Un dipinto può costare quanto una Mercedes, ma esprime ben altro valore, un valore incommensurabile, soggettivo, che sfugge ad un razionale controllo di natura strettamente economica. È in tal senso che è significativo dare sviluppo e sostegno a qualsiasi forma di imprenditoria che tenda a valorizzare l’arte, piuttosto che sfruttarla, a cogliere i frutti maturi, ed a far crescere quelli ancora acerbi o addirittura a seminare per raccogliere poi l’arte nella sua essenza. Un discorso questo non scevro da considerazioni economiche, non si campa di sola tela, ma queste ultime devono essere marginali rispetto a quelle artistiche. È questo anche un invito alla riscoperta dell’arte attiva e non solo passiva (quest’ultima pure oggi peraltro trascurata); riportiamo l’arte nella società attuale, liberiamoci dagli schemi mentali fissi della informatizzazione, riacquistiamo il gusto del dipinto, della scultura, affianchiamo ai poster dei falsi miti, i dipinti dell’arte in cui ci identifichiamo. Sarà un processo lungo, ma solo perseverando è possibile ottenere il risultato della riabilitazione dell’arte impedendo che essa divenga culto di una ristretta cerchia di vip (in senso generico); facciamo si che il culto dell’arte divenga un’alternativa sempre più diffusa ai culti attualmente per la maggiore, ricordando sempre però che l’arte non ha prezzo, o meglio il prezzo lo stabilisce il cuore. RAFFAELE VISONE.